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- (Colombo Jazz) Herbie Hancock - Gershwins World (1998) ( Eac Flac cue -


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Flac Single Track

Source: Original CD

Herbie Hancock - Gershwin\'s World

release date 10/20/1998

Verve Records




Tracks list
   
1 Overture (Fascinating Rhythm)      
   
2 It Ain\'t Necessarily  

3 The Man I Love      
   
4 Here Come De Honey Man        
   
5 St. Louis Blues    
   
6 Lullaby      
   
7 Blueberry Rhyme P        
   
8 It Ain\'t Necessarly So (Interlude)        
   
9 Cotton Tail        
   
1o Summertime        
   
11 My Man\'s Gone Now        
   
12 Prelude In C# Minor        
   
13 Concerto For Piano And Orchestra In G, Second Movement        
   
14 Embraceable You  


Listen to sample

http://www.vervemusicgroup.com/artist/releases/default.aspx?pid=9909&aid=2846


Personnel

Herbie Hancock Acoustic Piano
Wayne Shorter Tenor Saxophone, Soprano Saxophone
Eddie Henderson Trumpet
Kenny  Garrett Alto Saxophone
James  Carter Tenor Saxophone, Soprano Saxophone
Ira  Coleman Bass
Terri Lyne Carrington Drums
Joni  Mitchell Vocal
Stevie Wonder Vocal, Harmonica
Marlon Graves Guitar, Percussion
Cyro  Baptista Percussion
Cheik Mbaye Percussion
Charles  Curtis Cello


review

Gershwin’s World (Verve 199 è un progetto faraonico realizzato da Herbie Hancock e dal produttore Robert Sadin, nel 1998, per festeggiare il centenario della nascita di George Gershwin. Fra i musicisti coinvolti, oltre a Hancock (piano, organo, arrangiamenti) e a Sadin (arrangiamenti, programmazione), sono presenti Chick Corea (pianoforte), Madou Dembelle (djembe), Massamba Diop (talking drum), Cyro Baptista, Bireyma Guiye, Cheik Mbaye (percussioni), Eddie Henderson (tromba), Kenny Garrett (sax contralto), James Carter, Wayne Shorter (sax tenore e soprano), Bakithi Kumalo (contrabbasso e chitarra), Ira Coleman, Alex Al (contrabbasso), Terri Lyne Carrington (batteria), Marlon Graves (chitarra e percussioni), Stevie Wonder (armonica a bocca, arrangiamento e voce), Kathleen Battle, Joni Mitchell (voce), Charles Curtis (violoncello) e The Orpheus Chamber Orchestra.

Il disco. Dagli anni ’90 Herbie Hancock si è sempre prodigato nel realizzare progetti che potessero assurgere al grado di “eventi” più che rimanere semplici “importanti registrazioni”. In quest’ottica, vista anche la ricorrenza per cui è nato, non fa eccezione Gershwin’s World, un “evento” che, però, a differenza di altri “ambiziosi” lavori di Hancock, mantiene un certo spessore culturale e una buona dose di consapevolezza interpretativa e storica.

Intrigante, in questo senso, l’idea di realizzare un album che non fosse semplicemente una rilettura pedissequa e celebrativa delle musiche gershwiniane, ma che tentasse di esplorare globalmente quell’universo musicale che coincise con il “mondo di Gershwin”, lo influenzò e spesso ne costituì anche l’originale impulso. Il fermento musicale della scuola di Harlem, lo stride piano di James P. Johnson (rappresentato qui da Blueberry Rhyme), l’impressionismo francese, la musica di Maurice Ravel (Concerto For Piano And Orchestra In G, 2nd Movement), ma anche la tradizione afroamericana, i primi blues di William Christopher Handy (St. Louis Blues), lo stesso jazz che, durante la sua evoluzione, spesso (ri)utilizzò stilemi tipicamente gershwiniani come il giro armonico di “I Got Rhythm” (struttura “classica” qui riproposta in Cotton Tail di Duke Ellington).

Altrettanto interessante poi il tentativo di avvicinare i giovani alla musica di Gershwin, coinvolgendo artisti affermati appartenenti a generi musicali diversi (jazz, blues, classica, rhythm’n blues, rock, pop, folk, funky, afro), che hanno saputo dare un contributo celebrativo-interpretativo originale a questo universo musicale. L’incontro, per esempio, di quattro percussionisti dell’Africa occidentale (Dembelle, Diop, Guiye, Mbaye) con un loro analogo brasiliano (Baptista) ha dato vita ad una mescolanza di accetti e ritmi del Senegal e di Bahia dal sound veramente affascinante che ha regalato un tocco in più di Africa e di Sudamerica alle già ricche atmosfere gershwiniane.

I brani. Overture (Fascinating Rhythm) è un quadretto afro caleidoscopico, che estrapola ed evolve alcune cellule sonore tratte dalla composizione scritta da Gershwin per il musical “Lady, Be Good”. Un ottimo intreccio ritmico-armonico che coinvolge tutti e cinque i percussionisti (Dembelle, Diop, Guiye e Baptista più il colorato e pirotecnico Mbaye), con Hancock che si limita a due scroscianti interventi.

Di seguito, uno degli standard jazz più celebri firmati George Gershwin-Ira Gershwin (fratello di George, autore di molti testi delle sue song), It Ain’t Necessarily So, tratto dal “Porgy and Bess”. Un brano dove si possono cogliere a meraviglia le radici “entertainment popolari” della musica gershwiniana. Una melodia rorida di quello swing caratterizzante i musical e i commenti musicali di film, che furono la prima occasione di successo per Gershwin, prima di dedicarsi, su suggerimento di Paul Whiteman, a quell’interessante esperienza sinfonica che lo portò a fondere elementi jazzistici e linguaggio colto europeo (da cui nacquero capolavori come “Rhapsody in Blue”, “Concerto in Fa” e così via).

Un brano dalle forti e carnali tinte blues, arricchito dalla tromba di Henderson, dal sax contralto di Garrett, dal basso di Coleman e dalla batteria di Carrington. Sullo sfondo, le percussioni di Diop e Dembelle. Sottile il fraseggio pianistico con cui Hancock disegna il tema. Squillante e prezioso l’eloquio della tromba. Persistente e corposo il sax alto. C’è una grande attenzione per le sfumature sonore: quando ai due fiati si aggiunge in contrappunto anche il sax di Carter, l’intreccio è perfetto. Tre colori su una stessa tavolozza. Il solo del piano è scintillante, fresco e limpido. Il procedere contrappuntistico di tromba e sax delizioso per espressività e colore. Un arrangiamento ben tornito e curato nei minimi dettagli.

Discorso analogo vale anche per il brano successivo, The Man I Love, tratto da “Lady, Be Good”, ad opera dei due fratelli Gershwin, impreziosito qui dalla voce sempre emozionante e preziosa di Joni Mitchell, straordinaria interprete cara anche agli amanti di jazz per i suoi “trascorsi mingusiani” e poi per le sue collaborazioni con artisti del calibro di Jaco Pastorius, Michael Brecker, Pat Metheny, Don Alias e altri. Un’interpretazione intensa e sentita che ricorda da vicino stelle del firmamento canoro afroamericano, come Billie Holiday o Ella Fitzgerald, che si sono espresse spesso anche attraverso il songbook di Gershwin. Il morbido tappeto di Carrington alla batteria, Coleman al basso ed Hancock al piano è tutto per la voce calda e suadente della Mitchell. Delizioso il loro intreccio.

A contrappuntare le linee vocali, intrecciandosi con l’accompagnamento libero del piano, s’aggiunge poi un cangiante e malinconico sax, che duetta amabilmente con tutte le voci in campo. Le sue linee contrappuntistiche sono melodiche e poetiche almeno quanto le parole dettate dalla Mitchell. Lo strumento di Shorter funge da seconda voce solista. Il suo breve solo è liricamente dosato e curato con estrema espressività. Anche le linee del piano scavano nei meandri di questa ballad con gran lirismo e purezza timbrica. La voce della Mitchell torna in scena e il sax contrappunta le sue parole con eloquio fresco e soave. Un’interpretazione coinvolgente che si chiude delicatamente, affidandosi ad un altro excursus solistico del sax, che intreccia ancora una volta le sue linee con un sempre ricco, colorato e limpido piano, e poi alla voce che, in un delizioso rallentando, detta la strofa finale. Straordinario il loro interplay. Da notarsi le linee sempre dinamiche ed espressive con cui Coleman sostiene il brano: un vero corollario di come deve agire un bassista in un contesto di ballad.

Here Come De Honey Man, scritto, con la partecipazione testuale di DuBose Heyward, dai fratelli Gershwin sempre per il “Porgy and Bess”, ci riporta a climi più afro. Spiccato l’apporto delle percussioni etniche di Batista, delicata la presenza di Graves e delizioso l’intreccio fra Henderson, Carter e Garrett. Un’interpretazione esoterica ed introspettiva, quasi tribale nello spirito. Straordinario l’interplay e sofisticata l’osmosi timbrica. Vellutato il sound della tromba, fluttuanti i sax, leggiadro il piano, grumose le percussioni, sottile la chitarra, elastico il basso. Un tripudio di corali individualità in continuo dialogo fra loro.

Il trattamento rhythm&blues riservato a St. Louis Blues di W.C. Handy non manca di venature funky. Hancock utilizza sia il piano sia l’organo e il mood è decisamente moderno rispetto alla versione originale, datata primi anni ’10 del 900, ai primordi del blues. Un modo originale di “svecchiare” un classico a beneficio delle nuove generazioni. Il linguaggio moderno R&B-funky, oltre che dall’ambivalenza piano-organo, è dato anche dall’uso frastagliato e tagliente della batteria di Carrington e dalla ruvida e viscerale armonica di Wonder, sfavillante e sanguigno anche nei suoi interventi vocali testuali o solistico-corali. A tenere sempre teso e propositivo l’andamento ritmico del brano ci pensa il basso di Al. Interpretazione frizzante, ricca di groove e di soli corposi e robusti in linea con le radici soul popolari dei blues delle origini.

Lullaby, composizione gershwiniana per quartetto d’archi, ci trasporta in un contesto “accademico” grazie alla partecipazione della Orpheus Chamber Orchestra che coadiuva con i suoi archi il piano. Arrangiamento cameristico arioso e leggiadro. Dopo aver mostrato una spiccata propensione per il funky, Herbie Hancock svela anche le radici europeo-colte del proprio pianismo. Un tentativo molto personale di ricreare quel contesto di “jazz sinfonico” che costituisce un po’ l’altra faccia musicale di Gershwin, accanto alle song. Herbie non si limita a ricreare la raffinata e cameristica atmosfera orchestrale di questa composizione, ma inserisce fra le sue pieghe molta improvvisazione jazzistica, sia in solitario sia coadiuvato dagli archi. Un ibrido a tratti destabilizzante, quasi spiazzante, che parimenti intriga e disarma. Un po’ come la figura stessa dell’artista Hancock.

Blueberry Rhyme è uno stride piano di James P. Johnson, eseguito qui a due pianoforti da Hancock e Corea, non estranei a questi tipi di duetti. Della dinamica agilità dello stride – che consiste in un rapido movimento alternato, nell’accompagnamento della mano sinistra, di bicordi di ottava o di decima sul primo e il terzo tempo della battuta in quattro, e di accordi sui tempi pari -, però, rimane poco. L’idea di far coesistere due pianoforti dal linguaggio così pieno, corposo e presente su un brano già di per sé così ricco e virtuosistico rende l’esecuzione piuttosto “pesante” sia a livello ritmico sia espressivo. Le linee improvvisative, seppur dinamiche, dell’uno s’infrangono spesso contro l’accompagnamento altrettanto robusto dell’altro. Anche a livello di tocco manca la leggiadria tipica di questo stile pianistico.

L’impressione è che entrambi i pianoforti siano troppo spesso in prima fila e così il dialogo risulta eccessivamente paritario. It Ain’t Necessarily So (Interlude) è un altro delizioso siparietto dall’andamento tribale realizzato attraverso un intreccio ben composito di percussioni afro (Baptista), tromba (Henderson), piano (Hancock) e sax contralto (Garrett), sostenuti con dinamismo prezioso dal basso di Coleman. Cellule sonore minimali prese dal brano gershwiniano, arricchite ed espanse da ognuno degli strumentisti attraverso un continuo, insistito ed esoterico dialogo a più voci.

Cotton Tail, come spiegato in precedenza, è stato costruito da Duke Ellington sulla falsa riga, sugli stessi accordi costitutivi dell’opera per pianoforte ed orchestra di Gershwin “I Got Rhythm”. L’impalcatura accordale è la medesima dell’anatole jazz. L’interpretazione che ne dà qui Hancock, partendo dal brano ellingtoniano, è uno swing “very fast” straripante ed energico, caratterizzato da un interplay frizzante e brioso. Coleman e Carrington garantiscono la giusta pulsione ritmica e un colorato, scorrevole dinamismo viene dalle percussioni di Baptista. I suoni dell’intera ritmica sono concitati, ma ancor più arrembanti risultano le linee del piano, che dopo due veloci temi, inizia ad improvvisare.

Un fraseggio articolato, con frasi ben costruite, ottimamente intrecciate, e con risvolti insistenti e soluzioni insistite. A seguire, il sax. Un eloquio rorido di quelle arrovellate “schegge sonore”, tipiche dell’idioma di John Coltrane e tanto care anche a Shorter, che si stagliano perfettamente all’interno del magma sonoro creato dall’intera ritmica. Il brano prosegue con un continuo e concitato scambio di idee e di frasi fra il piano e il sax, volto a creare un intenso dialogo a due. Ripresa del tema da parte del piano e finale delicato da parte del sax.

Summertime, scritto da George, Ira Gershwin e DuBose Heyward, per l’opera “Porgy and Bess”, gode in questa versione dell’apporto veramente speciale della voce della Mitchell e dell’armonica a bocca di Wonder. Intro di leggiadro piano e corposo basso (Coleman). Entra la speziata, calda ed avvolgente voce della Mitchell a scandire le parole del testo. A farle da contrappunto, il piano liquido ed intenso del leader e l’ovattato e lirico sax di Shorter. A sostenerla, il basso che, in mancanza di batteria, detta da solo con precisione e dinamismo la giusta scansione ritmica. Il solo dell’armonica è prezioso, delicato ed introspettivo. Altrettanto sensibile l’eloquio del piano, che intreccia lunghe linee, limpide e fluttuanti. Torna la voce, sorretta armoniosamente dal piano e colorata da sax ed armonica. Dinamico ed elastico il basso, magistrale nelle sue linee d’accompagnamento. Un’interpretazione soave, poetica ed onirica. Incantevole.

Sempre dal “Porgy and Bess” è tratta anche My Man’s Gone Now, caratterizzata dalle percussioni di Graves e Baptista, che puntellano tenuemente la scena sonora, e dalle dinamiche ed aperte linee del basso di Kumalo. Delicato e sensibile il sound del gruppo, ottimo e celebrale il loro interplay. Una versione nitida ed intensa, un mood spaziante e fluttuante. Un’esecuzione libera da parte di Hancock che intreccia linee ariose, seguendone spesso con la voce il tratto. Poi sfumando il brano si conclude.

Prelude In C# Minor vede coinvolti Baptista alle percussioni, Curtis al violoncello, Kumalo alla chitarra, Coleman al basso, la soprano Kathleen Battle alla voce e Herbie al piano. Non mancano, in un paio di occasioni, scrosci di batteria, di piatti. Malgrado un’innegabile, preziosa ed intensa atmosfera cameristica, Hancock non disdegna di improvvisare sulle note di questa melodia. Altro ottimo esempio di mescolanza fra classica e jazz, fra musica “colta” e musica “popolare”, fra Europa e Afro-America.

Il Concerto For Piano And Orchestra In G, 2nd Movement di Maurice Ravel è un altro originalissimo duetto fra piano e Orpheus Chamber Orchestra. La perizia tecnico-espressiva anche in ambito classico di Hancock è notevole. Un incanto starlo ad ascoltare. In solitario nella prima parte del brano, viene raggiunto dai cangianti archi e dagli alati fiati dell’orchestra. Non mancano parti improvvisate da parte del pianista, che rimane, però, abbastanza fedele alla ortodossia classica di quest’esecuzione. Anche i solismi si mantengono “classicheggianti”, la sua mano jazz calca meno rispetto al consueto, anche se le “elucubrazioni solistiche”, che a volte enuncia su tappeto di archi, mettono i brividi, ma sono brividi di straniante piacere e di spiazzante interesse. Hanno un che di diverso, di nuovo, di inconsueto, di ibrido, di destabilizzante. Di certo, colpiscono, perché frastagliano le linee e frantumano gli equilibri classici di questa composizione.

Il disco si chiude con Embraceable You, sempre firmato George-Ira Gershwin e tratto dal musical “Girl Crazy”. Eseguito solo dal piano di Hancock mantiene tutto quel candore, quella bellezza estetica, che lo hanno reso fra i più eseguiti dai jazzisti e tra i più cantati da crooner e jazzsinger. Il fraseggio di Herbie è rotondo e coeso, procede per limpide linee e per morbidi accordi. Lo esegue come fosse un brano classico, col medesimo rispetto e col medesimo amore per la melodia. Sensazionale quanto a poeticità. Un piacere ascoltarlo.
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