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- [TVRip - DivX - Rus Mp3 - Sub Ita]Sokurov - Elegia di Pietroburgo[TNTV -


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Sokurov - Peterburgskaja elegija [Tntvillage.Scambioetico]

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(Peterburgskaja elegija)
di Sokurov













1989, 38 min., colour
LSDF, Centre of Creative Initiative LO SFK

scenario: A. Sokurov, T. Smorodinskaya
camera: A. Burov
sound: V. Persov
editor: L. Semenova
consultant: A. Tuchinskaya























“The film is a part of documentary series planned as a story about the past and the modern life of Russia, its culture and history. “The Petersburg Elegy” consists of two parts: the story about the life of Shaliapin’s family, and an emotional generalization of the life of people in modern Leningrad. In any sense this film widens our knowledge of private life of the great compatriot and follows the first film of the “Elegies” series. The film is built in a narrative manner: the author comments the archive photos and film footage, he proposes to look attentively and without hurry at the face of one of the main characters of the film — Fiodor Fiodorovitch Shaliapin, an old Hollywood actor living in Italy who came to visit Leningrad 60 years after he left it. In the face of the son we recognize his great father’s features and at the same time we note that he is an ordinary man…”

Alexander Sokurov (from the author’s notes to the film)


This looking at our contemporary world from some outside point of view becomes even more intense, even more estranged in “The Petersburg Elegy.” Here we can see the world that lost support, faces of dismayed people and eyes that don’t see any future. It is the world that doesn’t have a genius, the world without an artist. That’s why it is so important to show the Brown’s movement of fluctuating, unsteady mass of contemporary people concentrated in the same place (a shop, a square) with an immovable camera. The present–day views of St. Petersburg, the former capital of the Russian empire, are uninhabited and cold. Only steam from sewerage hatches is warm.

And again a visit of one of the Shaliapins to Leningrad became the pretext for the film. This time it was Fiodor Fiodorovitch, a son of Shaliapin’s second marriage. He spent most of his life in Italy. For him St. Petersburg, the city that his father left forever in the beginning of the 1920th, is a long–awaited aim of a traveller. Private life, family problems of an artist are things that connect him to the society; and it is the personality of the artist that in many ways anticipates the future of this society, sets its “genetic code.” The care for the human qualities of the family, of the nation, of the human race, the care for such people as Shaliapin, should be the main aim of any society. This is the inner purpose of Sokurov’s films about his famous compatriots.

Alexandra Tuchinskaya
(Cfr. http://www.sokurov.spb.ru/island_en/docume...a/mnp_pel.html)

e ancora... (da http://www.frameonline.it/ArtN22_Sokurov.htm)

Sokurov: lo sguardo lirico delle «Elegie»

di Emiliano Diamanti



Il cinema è soprattutto invenzione di linguaggi, di forme, di sguardi. Chi fa cinema e chi lo recepisce hYears in comune un desiderio: esplorare i percorsi dell’immagine in quanto “duplicato”, e attraverso essi scoprire la bellezza e la “verità”. In questo lavoro cercheremo di ripercorrere l’esperienza di un personaggio singolare del cinema russo degli ultimi trenta anni. Posso aiutarvi a identificarlo ricordando soprattutto la completa retrospettiva che il ventunesimo Torino Film Festival gli ha dedicato, e il passaggio delle sue Elegie nel noto programma televisivo Fuori Orario di Enrico Ghezzi (che titolò la rubrica “Eclissi di cinema”). Sto parlando di Aleksander Sokurov, il regista che colpì la sensibilità umana e artistica di Andrej Tarkovskij e che da molti è considerato il suo erede spirituale. Autore di film come Arca russa (2002), Padre e figlio (2003), Moloch (1999), Madre e figlio (1996) possiamo risalire fino alle sue origini, nel 1978, quando iniziò la lavorazione di The Lonely Voice of a Man. Tra i cortometraggi non deve sfuggirci il metafisico (più che metaforico) Impero (Ampir, 1986), a proposito di una banale quotidianità (di una donna paralitica distesa in un letto che sembra una bara) distrutta da un assassino ignoto e maldestro (il Male) senza un apparente motivo (quasi una riflessione sull’ineluttabilità e sul mistero divino). Accanto a questi film, che definiremo di finzione, Sokurov ha sviluppato anche un importante disegno artistico che si muove nel senso del documentario.
Abbiamo utilizzato l’aggettivo finzione piuttosto che narrativo per non sottovalutare il potere evocativo del documentario che, troppo spesso associato in modo ingiusto e riduttivo al reportage storico o naturalistico, è uno strumento alternativo di narrazione basato su un diverso ventaglio di materiali e di strumenti. Risalendo dunque la china dell’esperienza cinematografica, ma più in generale di quella artistica, dobbiamo disporre che la scelta della lingua attraverso cui avviene la comunicazione deve essere vagliata anche a partire dai canoni estetici. A tal proposito abbiamo scelto proprio Sokurov in quanto portavoce di una scelta che negli anni ha dimostrato le sue reali intenzioni, che noi giudicheremmo “sperimentali”, rivisitando gli strumenti e i mezzi del documentario, mescolandoli con quelli della finzione e regalandoci delle meravigliose perle di bellezza che vYears sotto il nome di Elegie.
Per introdurre il discorso dobbiamo necessariamente ritornare al 1978, cui facciamo risalire un’esperienza che potremmo definire preliminare allo sviluppo delle Elegie, ma che già segna una tappa fondamentale per capire i suoi futuri lavori. È la realizzazione di un documentario (cui verrà aggiunta una seconda parte nove anni dopo) che restituisce un’immagine non insolita della Russia nell’epoca comunista, ma comunque densa di sentimento umano ed estetico. Si tratta di Marjia (Elegia contadina), un’opera secca e impietosa sul carnale rapporto tra uomo e natura, ma oserei dire sul rapporto “schiavistico” che lega l’uomo alla terra. La cinepresa, soffermandosi sui volti seri e divertiti di quelli che ne sarYears i protagonisti, costruisce un racconto spontaneo in cui i volti stessi raccontano la fortuna e il dramma della realtà contadina: ritmi alienanti di lavoro che costringono a dividersi tra i campi e le famiglie. Marjia precocemente vecchia per via della fatica, sofferente per via di un figlio morto piccolo, è l’incarnazione del dovere e della negazione del piacere. E quegli spazi enormi, lembi della pelle di un dinosauro morente, diventano un fondale su cui si stagliano figure animate, di cui non conosciamo le identità ma che possiamo considerare tutte reduplicazioni della stessa alienazione e della stessa sofferenza di Marjia. Nella seconda parte, l’istanza narratrice fa ritorno nello stesso paesino per mostrare a quella gente le immagini filmate nove anni prima. Non sembra essere cambiato nulla. Di nuovo la soggettiva indaga nei conflitti e nei ricordi. Marjia nel frattempo è morta. Per lei il bianco e nero diventa un canto funebre lento, statico, che crea una galleria di ritratti che si intonano al lutto, non solo per Marjia ma per un popolo intero. In sottofondo l’addio sta in una canzone italiana: Mamma. Un uomo di spalle si allontana nella neve, solitario. I lunghi silenzi, i campi fissi a esplorare l’uomo e la natura come in un intrigante abbaglio spirituale, la voce over di Sokurov stesso, la quale più che illustrare si pone e ci pone domande senza risposte.
Il lirismo delle immagini affiora già in questa lontana esperienza, e lo ritroveremo arricchito nelle successive. Saltando al 1986 ci imbattiamo in Elegia il primo vero capitolo del ciclo delle Elegie. L’occasione per la realizzazione di questo documentario è il rientro in patria nel 1984 delle spoglie del noto cantante lirico Fedor Saliapin, che riposava nel cimitero di Parigi dal 1938. Le immagini, tratte da archivi privati e pubblici, vengono riutilizzate non per ricostruire un percorso biografico puntuale del cantante, ma per offrirci bagliori diffusi della vita di un artista e, più in generale, di un uomo fuggito dalla madre terra perché stanco di sopportare. E così la pellicola si deforma grazie alla luce: immagini di spettacoli remoti, foto d’epoca che ritraggono la storia nella fissità di una forma, immagini contemporanee, per lo più silenziose, di familiari raccolti attorno al ricordo. La musica… e il canto di Saliapin. Questi sono i lineamenti di un modo di raccontare in cui sono gli oggetti, le persone pur slegate fra di loro a parlare di sé. Il teatro in cui le azioni vengono agite spesso è poco più che un ambiente irriconoscibile, ma è in grado di essere esso stesso un racconto degli occhi.
Dicevamo che molti vedono in Sokurov l’erede di Tarkovskij. Se c’è un rapporto di filiazione tra i due, quello è sancito proprio dalla spiritualità. Sokurov soffia sugli oggetti una leggera foschia, li astrae e, con il suo lento incedere e le sue inquadrature fisse, ne scopre sempre una seconda bellezza. Tutto appare come un sogno, ma è vita. È l’analoga visionarietà di Tarkovskij, quella che sprigionano i suoi film e il suo modo di parlare. Ce ne rendiamo conto nella seconda elegia, l’Elegia di Mosca (1986-8 dedicata appunto al regista. Ancora immagini di repertorio, ancora l’intenzione di offrirci il senso della vita di un uomo. Senza profondere elogi, Sokurov ci offre la vitalità, l’incomprensione, l’umanità dell’amico scomparso a soli cinquantaquattro anni. Tarkovskij è l’artista, è l’esule per scelta, è il religioso cantore della bellezza e della malattia dell’uomo. La voce di Sokurov viaggia attraverso il filmato, tra le interviste e le chiacchiere con Tonino Guerra, attraverso le scene di Lo specchio (1974), Nostalghia (1983) e Sacrificio (1986), in un lunghissimo percorso della memoria che è citazione dell’arte cinematografica e dello spirito della creazione.
Il ritorno in patria dopo sessanta anni di Fedor Fedorovic Saliapin (figlio del cantante lirico Saliapin, protagonista di Elegia) è l’argomento di Elegia pietroburghese (1989). Lo sguardo penetrante dell’attore colto da una lunga inquadratura fissa è perso nella memoria. La fissità, potremmo dire, è la norma di Sokurov. Dentro la fissità, la mutevolezza della vita, di uno sguardo, perfino di un pensiero. Dare il giusto tempo. Prendersi il giusto tempo. Sembra un’antica norma spirituale orientale. E forse lo è. Attraverso il tempo Sokurov scava nella Verità di ciò che si propone davanti alla cinepresa e ce ne offre un assaggio.
Del 1990 è Elegia sovietica, un ritratto del muto, rassegnato e preoccupato Boris Eltsin all’indomani della caduta del muro di Berlino. Sullo schermo scorrono i personaggi che fecero del partito comunista un grande strumento di controllo della vita del paese e dei singoli cittadini. Il sogno si è infranto negli occhi di Eltsin. Non resta che ricominciare.
Elegia semplice è un piccolo saggio sulla quotidiana pazienza del vivere e dell’agire. Nel silenzio risuona un pianoforte che emoziona e colora il volto di chi lo suona. Quel volto stesso si rabbuia davanti alle carte del suo lavoro. Forse un’allusione alla potenza salvifica dell’arte?
Quella di Sokurov è una grande impresa condotta in favore dell’immagine. Cos’è l’immagine? Ma soprattutto, esiste un’immagine più narrativa e poetica di un’altra? L’impegno cinematografico lo ha portato a valutare formati diversi, sorgenti diverse e a farne comunque strumento di espressione di un’idea, un pensiero, un sentimento. La foto, l’attimo reso eterno assomiglia ai quadri di Sokurov ma è mutilo del sonoro. E la foto diventa essa stessa veicolo del racconto. Elegia dalla Russia (1992) è probabilmente il canto più triste innalzato alla sua patria. Dolore, sofferenza, senso di morte si propagano ovunque a partire da un quadro buio da cui emerge il rantolo di un moribondo. E la natura silenziosa si intinge di un sonoro innaturale, meccanico, frenetico. Le sequenze tratte dal cinegiornale europeo degli inizi del ventesimo secolo si accompagnano alle foto storiche di fine Ottocento sulle quali la cinepresa indugia posandosi sui particolari più tetri della miseria, della povertà e del disagio.

Il linguaggio documentaristico si complica però dinanzi a due manifestazioni della bellezza visiva che corrispondono all’Elegia orientale (1996) e all’Elegia del viaggio (2001). Se negli altri lavori Sokurov aveva impegnato materiali tra i più diversi (foto e sequenze filmate provenienti da archivi statali e privati) al fine di produrre un’immagine “pensante” e una “ricostruzione” (che è sempre coscientemente parziale e “infedele”) degli aspetti più contraddittori di un paese in via di dissolvimento, pare che i lavori compiuti dopo il crollo dell’URSS siano dedicati maggiormente allo studio dell’immagine in sé. Elegia orientale, Elegia del viaggio e Dolce (1999) sono peregrinazioni di un’istanza narrante libera dall’ossessione di una rivisitazione, se pur artistica, della storia di un paese e dei suoi personaggi (anche Dolce è una Biography artistica di uno scrittore, ma di uno scrittore giapponese e quindi al di fuori dei parametri storici e culturali dell’Unione Sovietica). L’intervento della voce di Sokurov è maggiore e sembra in cerca di qualcosa che era già avvertibile nelle altre Elegie, ma che qui diventa centrale: lo spirito che abita il mondo. Così Elegia orientale è il viaggio in una terra assai cara al regista, un viaggio nella bellezza incontaminata resa ancora più immateriale dalle nebbie e dai flou artistici (e dal digitale qui usato). Più che un viaggio, un sogno, un volo immaginario guidato da una chiamata che Sokurov avverte ma non si spiega. Sono gli spiriti cui l’ombra del regista fa visita per trovare risposte e salvezza.
L’ultima delle Elegie di cui parleremo è Elegia del viaggio. Proprio come la precedente, anche questa si configura come la continua ricerca di qualcosa che sta in un “altrove”. L’ombra di Sokurov, la sua immagine o, se volete, l’istanza narrante che egli incarna, si mette in viaggio. Ed è di nuovo sogno e chiamata, riflessione sulla vita degli uomini. Dalla Russia alla Germania all’Olanda attraverso mari e strade e posti irriconoscibili. L’ambiente muta, si trasforma lungo il cammino. La Russia delle nevi e dei campi diventa La Germania delle strade veloci. All’inizio è un albero di frutti colorati minacciato dalle correnti fredde. Alla fine è una casa-museo in Olanda in cui l’ombra si aggira tra i quadri attirata da qualcosa che non capisce: è un dipinto del 1765 e l’ombra ne ricorda la realizzazione. L’ombra stessa è una messaggera dell’arte, una presenza che agita la creazione e ne fa parte. E scopriamo il senso della chiamata: lo spirito si annuncia e l’artista non può che seguirlo, ovunque e a qualsiasi prezzo.

(18/06/2004)







 











[ Info sul file ]

Nome: Sokurov,A. - Elegia di Pietroburgo (1989).avi
Data: 27/04/2006 01:02:16
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[ Info sulla codifica MPEG4 ]

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[ Profile compliancy ]

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Rapporto generato da AVInaptic (18-11-2007) in data 29 lug 2008, h 21:32:08

Audio: russo
Subtitles: italiano
TVRip di media qualità

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http://tracker.tntvillage.scambioetico.org:2710/announce
Hash 2d1b45648a82c0c94f59fb8d2a4e971dc92ea500
Peers seeds: 2 , leech: 7
Size 400.25 MB
Completato 2x
Aggiunto 30.07.08 - 14:07:01
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